top of page

Le Cronache di Yogether

   Sono nato analogico e da piccolo avevo dorati capelli ricci. Proprio come un cherubino. Ma il mondo in cui crescevo non era angelico. Seppur cullato dall’amore dei miei genitori, gli stessi che poi mi educarono a rettitudine e rispetto per il prossimo, presto cominciai ad assorbire tutta la potenza di fuoco degli anni ottanta. L’American Dream e le Guerre Stellari reaganiane non solo penetravano le mura di casa attraverso il TG1 delle venti, ne era letteralmente intrisa l’atmosfera, ancor più che di smog. Oltre al mobile Arcade nella drogheria di quartiere e al televisore col tubo catodico in soggiorno, entrambi decisamente poco “wearable”, non avevamo nulla di digitale. Giocavamo all’aperto, in mezzo al verde, senza il bisogno di mascherine. Ci divertivamo tanto, con poco. Saltafoss e Tango, gessetti e sassi, alberi come porte da calcio ma lo sguardo era già inconsciamente rivolto alla Ferrari bianca di Sonny & Rico e a quella rossa di Magnum, ai bicipiti verdi di David Banner e alle gambe bioniche di Steve Austin, al pugno inanellato di P.E. Baracus e all’intelligenza artificiale di KITT, all’abbondante scollatura di Fujiko Mine e ai micro shorts di Daisy Duke.

   Cadde il muro di Berlino e con esso i miei capelli. Al contrario i muscoli cominciarono a crescere in sinergia coi pacchi pesi di ingombranti attrezzi dalla meccanica simile a quella dello chassis da combattimento che animava lo spietato terminatore inviato da un 2029 post apocalittico in cui l'insider trading, alla maniera di Gordon Gekko, era decisamente estinto. In perfetta coerenza col mito di Wall Street, il rumore di sottofondo dell’esistenza, mal attutito dalla “air” orientale pompata con artificio nelle suole di scarpe occidentali, era quello dei contanti che rullavano insonni nei contabanconote; mentre l’odore, che impregnava tanto la tuta del “working class hero” quanto l’abito griffato dell’uomo che “non doveva chiedere mai”, quello di fritto delle cucine di montaggio dei fast food.

un bacio berlinese.jpg

Bastò un piccolo “jump” perché quella fragranza divenisse “teen spirit” mentre noi “guerrieri della notte dal tramonto” e “wild boys all’alba”. Ma benché “duri a morire”, chi si voltava era perduto, perché tutto girava veloce come i motori delle automobili, tanto basse e votate alle prestazioni quanto incuranti di sicurezza ed emissioni.

mr olympia.jpg

   Fu guidando una di esse che, con indosso i miei Aviator da Top Gun e sprezzante del codice stradale per rispettare tempi precisi di assunzione di aminoacidi e creatina, mi recai, in uno “strange day”, al Fitness Club in cui mi allenavo. Avevo da poco appeso le spalle larghe della mia giacca da copertina “cartacea” a una gruccia e infilato una canotta di una taglia più piccola quando la vidi per la prima volta. Hoodie, in vita, e leggins neri, infradito e tank top bianchi, stava in piedi davanti alla delts machine impegnata ad arrotolare un tappetino. Il colpo di fulmine ebbe il bagliore delle luci stroboscopiche sotto cui, “tra bottiglie e privè”, avremmo ballato fino alla “morning glory” e dei catarifrangenti delle gallerie attraverso le quali saremmo fuggiti dalla grande metropoli giusto per qualche giorno di “laguna blu”, perchè in fretta saremmo tornati a costruire la nostra torre di cemento e cristallo, il più alta possibile. Doveva esser mia. Sarebbe stata mia! Mi convinsi all’istante che conquistare lei avrebbe rappresentato una tappa fondamentale nella corsa più in voga, quella per la “fama”. Non parlammo tanto durante il mio approccio alfa. Fu però sufficiente per intuire che era diversa. Non di quella diversità che rende una persona unica, che ti fa apprezzare il cliché per il quale alla fine ci si innamora più dei difetti che dei pregi. Era tanto “pretty” quanto perfettamente allineata a quel contesto ma allo stesso modo sembrava esser stata catapultata lì da un universo parallelo. Capii troppo tardi che, seppur fosse di questo mondo, aveva attraversato il tempo.

ado mukha shvanasana.jpg

   Gli incontri successivi furono piacevoli e più prolissi ma le cose non procedevano come avevo pianificato. Difficile da accettare quando ambisci a trionfare sempre, quando il fallimento è un lusso non concesso alla tua “self esteem” con indole da vip. Mi regalai dunque un’ultima chance, sebbene volesse dire uscire dalla mia zona di comfort per rischiare di entrare, come l’Harry di Sally, nella sua friendzone e la accompagnai, “solo per i suoi occhi”, a una lezione di Yoga. Non mostrai apertamente la mia superbia verso quella strana disciplina, relegata alle fasce meno popolari dei palinsesti corsi, sebbene, forte di un benchmark da cento chili di panca piana e di tre volte tanto di leg press oltre a una discreta confidenza pugilistica, fossi convinto che sarebbe stata una pura formalità. Oggi si posterebbe #yourworkoutismywarmup, allora mi sentivo semplicemente invincibile e il mio solo interesse tecnico era quello di comprendere perché mi avesse suggerito di portare una felpa da indossare a fine attività, quando invece sarebbe stato logico toglierla dopo aver scaldato a dovere i muscoli prima di “strike a pose” #likeasexsymbol #likearockstar. Ricordo solo altre quattro cose di quel giorno:
Mi diede un bacio alla francese lungo un “attimo fuggente” e partì l’indomani.
Il mio corpo soffrí come non mai in allenamento. Neanche durante i giovedì di quadricipiti e polpacci.
La felpa mostrò la sua logica nella sostanza di un profondo abbraccio nell'istante che precede il sonno.
Saltai per la prima volta indietro nel tempo.

il monogramma.png
il presidente ronald.jpg

   Quando salti per la prima volta indietro nel tempo non ne sei veramente consapevole. Non ci sono lucine bianche statiche su di uno sfondo nero che improvvisamente accelerano trascinandoti in un tunnel in fondo al quale ti ritrovi in una caverna a gridare “yabba-dabba-doo” in compagnia delle versioni originali di Fred e Barney, oppure a disquisire di tempere con Leonardo Da Vinci intento ad affrescare Santa Maria delle Grazie. È qualcosa che avviene da dentro. E’ come se nelle tue cellule si attivasse un “quinto elemento” sintonizzato su di un segnale radio proveniente dalla genesi dell’universo. Col senno di poi è una percezione destinata a crescere e mutare, ma dapprima ne avverti solo il singolare incipit per il quale non trovi una spiegazione matematica come faresti banalmente in tema di forza massimale ed endurance. Col senno di poi ti rendi anche conto che la tua capacità di analisi di allora, con buona probabilità, era stata alterata da un numero eccessivo di visioni di Ritorno al Futuro sino a teorizzare uno stravagante viaggio a ritroso negli anni come giustificativo per quella misteriosa connessione con radici ataviche. In quel momento l’unica concretezza era dunque lo Yoga inteso come mero strumento per ripetersi ancora e ancora nella ricerca del piacere singolare, più per forma che per intensità, che quel processo generava. Uno strumento contraddittorio di cui mi sfuggiva il funzionamento: mi sentivo fisicamente frustrato e mentalmente impacciato, eppure appena indossavo quella felpa stavo già pensando alla prossima sessione.

  Con la pratica costante quella percezione divenne consapevolezza spirituale, vera soluzione a tutti i miei quesiti delle cui prime interpretazioni ancor oggi sorrido, senza vergogna. Una consapevolezza molto più semplice da provare che da spiegare. Ad ogni buon conto basti sapere che normalmente non richiede nessuna lievitazione mistica, nessuno stravolgimento d’immagine o di vita sociale; solo sana perseveranza al pari di

un'esplosione.jpg

   Capii troppo tardi che aveva attraversato il tempo… e ci volle di più per realizzare che veniva da un futuro prossimo dopo esser stata in un lontano passato. Quel futuro è il “black mirror” di oggi! È il presente in cui “la grande bellezza” della spiritualità assume i toni di uno “shining nightmare”. È come indossare gli occhiali neri di George Nada non per scoprire che molti umani sono in realtà scheletrici E.T. decisi a condizionare la società, ma per realizzare che con le nostre stesse mani abbiamo innescato, a colpi di trivelle e fake news, il conto alla rovescia per l’autodistruzione #thedayafter e che ha il suono incessante della sirena della nave spaziale del tenente Ripley. Ma non ci sono “dune” aliene da colonizzare come non c’è alcuna “life on mars” oltre a quella di Ziggy Stardust. C’è un solo febbricitante pianeta, non ancora “delle scimmie”, da guarire a$ap! Lei lo sapeva, lei lo aveva già visto! Lei, con energia inattesa, era stata in grado di generare pace laddove c’era “chaos”. E per farlo aveva acconsentito a lasciare la sua stanza e ciò che in essa credeva essenziale, per aprirsi, attraverso una nuova e migliore versione di sé, a tutte le possibilità della vita.

  “Una rivoluzione ci salverà”, affermava un’autrice “senza logo”, tralasciando le istruzioni d’uso quasi si trattasse della tuta rossa di un Supermaxieroe.

un bambino che gioca a calcio.jpg

un “karate kid”. Nulla in superficie era dunque cambiato, anche i muscoli, complice l’integrazione con la calistenia, avevano mantenuto il loro tanto sudato “pumping” seppur senza “iron”, oltre a esser divenuti più flessibili e armoniosi. Potrei aggiungere che la confidenzialità col mio corpo era tornata a essere quella di quando pedalavo su una Saltafoss e calciavo un Tango. Potrei disquisire di quale sia lo stile di pratica per antonomasia e della contrapposizione tra approccio fisico e approccio olistico, di come per alcuni il primo non sia Yoga e viceversa.
Il vero punto, però, è che quando capti che il tuo spirito vive in piena comunione

the flower power.jpg

col pianeta che abiti #madreterra, vuoi che quel pianeta sia da subito il più possibile prospero “di mente e di corpo” per te e per tutto coloro con cui lo condividi! Lasciare le proteine animali per quelle vegetali, le bottiglie di plastica per il vetro a rendere, le cialde per la moka, il distributore per la borraccia, le lamette per il rasoio elettrico, il bagno schiuma per la saponetta, l'industriale per l'artigianale, il diesel per il nolo elettrico, la moto per la bicicletta, il fuoribordo per la vela, contingentare i voli, godere della bellezza del territorio locale, fare la spesa alla spina, impratichirsi con la spazzatura compostabile, dosare l’apertura dei rubinetti, mettere l’ozono in lavatrice, sfruttare forme di energia alternativa, convertire lo spreco in riutilizzo, promuovere la sostenibilità col buon senso oltre che con la scienza, trasfigurare il possesso materiale in esperienzialità, l’arroganza in gentilezza, bannare l’odio e la violenza in rete con bit di accettazione e altruismo, rispettare ogni essere vivente a prescindere non solo da razza, classe sociale, genere e orientamento sessuale ma fin anche dalla specie, non furono mode da seguire, stereotipi a cui uniformarsi, scelte radicali autoimposte. Furono il mio fisico e il mio intelletto, a ben vedere ancor prima di essere proiettati verso lo spirito, a richiederlo all’unisono, esattamente come fosse stata sete d’acqua. Una sete accompagnata da un senso di inappetenza verso tutto ciò che prima mi saziava: il rombo delle fiammanti “Gran Turismo”, con cui compiacersi del proprio status, cominciò a richiamare il fumo nero delle raffinerie. L’acqua calda di una lunga doccia perdeva il suo effetto ristoratore miscelandosi con la fredda violenza del fracking roccioso. Una spessa bistecca evocava la claustrofobia di un allevamento intensivo, gli scaffali di un supermercato, traboccanti di flaconi colorati, “ocean eyes” in lacrime.
“Un diamante di sangue non era più per sempre” al contrario dei commenti degli innumerevoli leoni da tastiera in cui, non più sarcastico, mi imbattevo curiosando come un “Mr. Robot” nei profili altrui.

E se fosse una rivoluzione “.love”? Se, “running in circles”, muovesse, all’ombra della “limelight”, da noi verso di noi senza avere nel mirino degli ipotetici poteri forti? Se fosse virale ma senza contagio? Dolce e salata? Madonna e Kylie? Incisiva e simbolica come il sapiente susseguirsi delle pieghe di un foglio che definiva l’origami unicorno del presunto replicante Dekard? Materiale ed eterea come la pratica che porta alla consapevolezza, come la consapevolezza che cambia la prospettiva, come la prospettiva che cambia l’approccio alle cose? Già, perché se solo la transitività di questi elementi, trascendendo la globalizzazione, varcasse ogni forma di confine, potremmo da un lato “frenarci sincronizzando il flow ansioso del nostro esistere alla calma naturale del respiro” #inhalexhale, dall’altro dare, come in fondo abbiamo già fatto con lo ”upload” di tutti i nostri dati, nuova vita virtuale a l'obsoleto slogan ed eleggibile meme: ”Make Love, Not War”. Senza forzature, con abbandono e pazienza, con fiducia e resilienza avremmo la facoltà di regalarci ancora quell’ultima chance fuori dalla zona di comfort, e, ”un mattoncino di Lego dopo l’altro”, “make a better place” quello in cui oggi effimeri ci erigiamo.

un origami unicorno.jpg

  Sono nato analogico e vivo digital€. Dopo quella lezione non la rividi mai più, nemmeno in una foto taggata tra i reconditi meandri di un social network. Non ci amammo veramente mai. Fu un colpo di fulmine come ce ne sono tanti per ogni temporale, ma nel profondo è come se fossimo ancora lì insieme, sospesi nel tempo, nel nome di quella strana disciplina ed è così che mi piace chiamare questo nostro curioso legame...… Yogether ...…& “imagine” che due diventi quattro, quattro diventi sedici, sedici diventi duecentocinquantasei e così via in un’infinita progressione esponenziale...perché uniti allo Yoga e uniti nello Yoga non sarebbe “utopia” tornare a: “esser soliti sognare, esser soliti guardare al di là delle stelle”… #om #shanti
(SIAE 2020)

l'om.png
bottom of page